Skin. Un’opera d’arte mortale

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Un’opera letteraria che muore insieme alle parole che la compongono, un racconto che ha la durata media di una vita umana e si modifica con la scomparsa delle persone che lo rendono vivo, accorciandosi e ridefinendo continuamente il proprio significato fino ad arrivare al paradosso di una storia costituita da un unico vocabolo superstite. Da questa idea nasce Skin, interessante esperimento letterario della scrittrice americana Shelley Jackson, che nell’agosto del 2003 ha pubblicato sulle maggiori riviste culturali statunitensi una vera e propria chiamata alle armi: aveva bisogno di oltre duemila volontari che potessero “incarnare” le 2095 parole che componevano un suo testo inedito. Compilando un modulo e firmando una liberatoria, i volontari avrebbero ottenuto via e-mail la parola che si sarebbero dovuti tatuare sul corpo al fine di entrare a far parte del racconto.

 

C’è chi ha avuto in sorte un semplice articolo o una congiunzione, chi un avverbio, chi ha avuto l’onore di un’iniziale maiuscola o l’aggiunta della punteggiatura, i più fortunati un sostantivo o un aggettivo, elementi con i quali sembrerebbe a tutti gli effetti più facile identificarsi. C’è persino chi, sentendosi sminuito dal ricevere un articolo indeterminativo tanto semplice quanto l’“a” inglese, ha chiesto a gran voce di cambiare ruolo, contravvenendo a una delle poche ma nette regole del progetto: se il volontario non si sente rappresentato dalla parola ricevuta, può decidere di non tatuarsela e ritirarsi dall’esperimento, ma non potrà inviare una nuova richiesta nella speranza di ottenerne una “migliore” – come a dire che non dovrebbero esistere gerarchie tra le componenti di una storia. Shelley Jackson, che prima di questo progetto aveva raggiunto la notorietà con l’ipertesto Patchwork Girl e la raccolta di racconti La melancolia del corpo (pubblicata in Italia nel 2004 da minimum fax), sfoggia sul polso il titolo “Skin” nel carattere tipografico Baskerville. Sul sito dell’autrice – www.ineradicablestain.com – è possibile consultare una mappa che mostra la distribuzione nel mondo delle parole tatuate: la maggior parte si trova negli Stati Uniti, sulla East Coast, una buona percentuale in Inghilterra, una sola in tutto il continente africano, nessuna in Italia (la più vicina a noi, “Where”, vive a Marsiglia).

Considerando i vari punti di questa mappa che corrispondono a sostantivi, si ha inoltre una panoramica approssimativa dell’atmosfera dell’opera: “esilio”, “scoiattoli”, “bambini”, “pelle”, “malinconia”, “ferite”, “strade”, “verità”. Il contenuto del racconto, tuttavia, resta per noi inafferrabile: Skin è il risultato di una ben precisa combinazione dei suoi 2095 vocaboli, e gli unici a conoscerla sono l’autrice e le persone tatuate, che hanno ricevuto il testo completo solo dopo essersi impegnate a non diffonderlo pubblicamente. A oggi lo stato del progetto sembra essersi cristallizzato: Shelley Jackson non ne aggiorna il resoconto dal 2010, quando era ancora ben lontana dall’obiettivo, mentre le varie comunità virtuali in cui le sue “parole” si sono riunite dichiarano di sentirsi “abbandonate” dalla propria autrice.

È probabile che l’impegno preso dalla Jackson di partecipare, per quanto possibile, al funerale di tutte le proprie parole fosse effettivamente fuori dalla sua portata, così come è probabile che il sogno di uno scrittore di vedere le proprie storie prendere vita possa essersi rivelato un incubo. Non è un caso che, dopo aver ricevuto oltre 20.000 e-mail relative al progetto Skin, Shelley Jackson abbia abbandonato la componente umana per scegliere un supporto alternativo alla pagina sì corruttibile, ma molto meno esigente: la neve. Dal dicembre del 2013, infatti, digitando SnowShelleyJackson su Instagram, si ha la possibilità di leggere (in ordine inverso e “tempo permettendo”) Snow, l’ultimo lavoro letterario di una scrittrice che ancora, caparbiamente, rifiuta l’immortalità della propria arte, questa volta condannando le sue parole a sciogliersi al primo raggio di sole.

Marzia Grillo